L’opera rappresenta La liberazione di san Pietro dal carcere; sulla sinistra della scena è raffigurato san Pietro con le chiavi in mano, l’attributo iconografico per eccellenza del santo, nel momento appena successivo all’apparizione e al risveglio a opera dell’angelo. Con un moto morbido e flessuoso, sulla destra del dipinto, figura l’angelo mentre scioglie i vincoli liberando Pietro dalla prigionia. L’opera è attribuibile alla mano di Bernardino Mei, pittore e incisore senese, di epoca barocca, vissuto tra il 1612 e il 1676 circa. Lo sappiamo attivo già dagli anni trenta del Seicento e l’ipotesi più credibile sulla sua formazione è quella di un alunnato, nel corso degli anni Venti, al fianco di Rutilio Manetti, il maggiore e più accreditato pittore senese del tempo. Nel decennio a seguire opera a Siena per conto di importanti committenti come i Bandinelli e i Chigi, si trasferisce definitivamente a Roma fino alla fine dei suoi giorni, il 16 aprile del 1657, grazie all’ascesa al soglio pontificio di Fabio Chigi con il nome di Alessandro VII. La liberazione di san Pietro è databile alla prima fase di attività del Mei, intorno quindi agli anni Quaranta del Seicento; l’opera mostra infatti una vivida adesione al naturalismo di Rutilio Manetti, sul quale si innesta oltre che una pienezza delle forme e una grande forza empatica dei personaggi, un dialogo anche con le figure e le atmosfere di Raffaello Vanni, soprattutto se si guarda alle linee e alla morbidezza dell’angelo ma il doctus di Bernardino Mei manifesta una maggiore sensibilità coloristica e luministica, più tenue e fusa in accordo con l’uso della luce che proviene da una fonte unica e si articola in tocchi di bianco a rendere un vigoroso chiaroscuro.